JALLIKATTU (2019) di Lijo Jose Pellissery

La possibilità nella nostra epoca (per chiunque) di vedere pellicole di ogni angolo del globo, ci permette di scovare delle perle assolute, in grado, come in questo caso, di abbattere pregiudizi decennali su un cinema, quello indiano e bollywoodiano, fatto di balletti assurdi e storie d’amore tendenti al trash. Prima di addentrarci in questa sorprendente visione selvaggia e antropologica, bisogna almeno ‘studiare’ alcune terminologie, luoghi geografici e storie alla base di questo film, girato completamente in lingua malayalam. Questa, parlata in una zona del sud dell’India, si distingue non solo per zona geografica ma anche per una cultura ben definita e lontana anni luce dall’idea che abbiamo in occidente sul grande paese asiatico. Almeno dalle informazioni essenziali catturate online. Jose Pellissery, figlio di questa storica cultura e di questa lingua dravidica, giunto al suo sesto lungometraggio, prende spunto dalla leggendaria e becera corsa Jallikattu, uno sport bandito in India dal 2014 e oggetto di diatribe tra regioni per la sua ripresa ancora oggi. Jallikattu è in realtà molto più di uno sport balordo. Considerato come una tradizione millenaria fusa ad un evento sportivo, risalente addirittura al 400 a.c., questo consiste in un salto acrobatico sopra un toro. In questo film lo Jallikattu sembra essere lo spunto per virare su altro, dove il collegamento con la tradizione millenaria appare come un legame impossibile da spezzare e attraverso il quale mostrare la non-evoluzione dell’essere umano. Se nello Jallikattu sono utilizzati dei tori, il protagonista inatteso di questo film sarà il ‘Bubalus bubalis’, un bufalo d’acqua selvatico che non viene affiancato per nulla alla nota sacralità dei bovini indiani. Quanto scritto sopra è una premessa fondamentale e necessaria prima di tuffarci in questo semi apocalittico e folle film, decisamente originale, illogico e destinato a stupire, divertire e inorridire secondo dopo secondo (comprese quelle assurde, almeno per noi occidentali, ‘gonne’ che indossano tutti gli uomini del villaggio).Entroterra del Kerala, in India. Kalan Varkey è un macellaio di bufali d’acqua, su cui l’intero villaggio, assai vivace e variopinto, fa affidamento per la carne fresca. Un rituale regolare di macellazione del bufalo va in tilt per Kalan Varkey, quando uno dei suoi bufali fugge creando scompiglio in tutto il villaggio. Tutto il villaggio, polizia compresa, inizia una furiosa ma confusa caccia all’animale. Dalle ‘vie’ cittadine ai boschi limitrofi, la caccia finirà per stravolgere le vicissitudini di molteplici personaggi: un padre di un imminente sposa, un coltivatore di erbe mediche, un gruppo di ubriaconi festaioli, e soprattutto Kuttachan e Anthony, due uomini che hanno vecchi conti da saldare, i quali prendono la questione sempre più sul personale. In questo vortice selvaggio e primitivo, la corsa e la cattura faranno emergere istinti primordiali sempre più beceri che finiranno per evolvere in qualcosa di mistico, apocalittico e multiforme …….Come ha sempre affermato Charlie Kaufman, la creazione di un grande finale renderà gigantesca anche tutta la storia, che si tratti di film o romanzo. Jose Pellissery fa suo questo tesoro nella stesura della sceneggiatura (scritta a quattro mani con R. Jayakumar), ispirata vagamente ad un racconto maoista di S. Hareesh ed ai suoi ricordi d’infanzia. L’inizio del film, scandito da un frenetico tic tac, occhi che si spalancano e rumori metallici di sottofondo, ci mettono subito in guardia su una promettente visione futura. Per nostra fortuna sarà così, perché da quanto scapperà il buffalo destinato al macello, il regista seguirà in maniera maledettamente avvincente l’esagerata brigata dei pittoreschi cittadini di questo singolare villaggio, felicemente lontano dai grattacieli e dalle frenesie delle metropoli, avvolto in un verde multicolore, dove le furiose corse del bufalo, trasformeranno quest’ultimo da preda prima a quasi cacciatore in alcuni frangenti (quando entra nel villaggio scivoliamo nel weird più puro). Dopo aver goduto per più di un’ora di una caciara impazzita, l’ultima immensa mezz’ora merita di essere consegnata alla storia del cinema. Un mix tra un’apocalisse zombie, Society – The Horror di Brian Yuzna, un cannibal movie e un rabbioso istinto primitivo senza regole, quasi impossibile da descrivere a parole. Lo stesso vale per questo film, difficilmente catalogabile (grottesco? black-comedy? avventura? thriller?) ma sicuramente unico nel cinema attuale, capace di coniugare atmosfere di caccia stile Apocalypto di Gibson a tradizioni millenarie che virano su cibo, sacro e profano. Un film incredibilmente energico, con dei virtuosismi tecnici da parte del regista assolutamente spettacolari (dalla scena delle torce nella foresta al seguire il padre della sposa mentre gira per casa, dalla folle corsa del buffalo nelle piantagioni di bamboo fino all’esagerata scena finale), destinati a lasciare stupito anche il cinefilo più avvezzo al cinema più dinamico e imprevedibile. JALLIKATTU è forte soprattutto di un finale, ampiamente elogiato in precedenza ma non può essere altrimenti, nero come la pece che ci trascinerà, assieme ai cittadini impazziti del villaggio, in un abisso primordiale e tragicamente pessimista sull’umanità. Bomba!! VALUTAZIONE 4/5

H.E.

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