PITY (2018) di Babis Makridis

Il cinema greco continua a regalare pellicole uniche ed ibride, a metà strada tra il dramma a tinte forte ed il grottesco più strampalato non privo però di significati abilmente nascosti, senza mai avvicinarsi completamente a nessuno di questi due generi. Se il maestro indiscusso degli anni 2000 del cinema ellenico ‘nonsense’ è Lanthimos, Babis Makridis dimostra di esserne un ottimo allievo, grazie ad una seconda opera che sembra seguire pienamente le linee guida di altre pellicole greche bizzarre/disturbanti, sulla scia anche della crisi economica che ha attraversato la penisola negli ultimi anni, come SUNTAN, LUTON, MISS VIOLENCE e tantissimi altri, più o meno noti.
Se la prima parte, pur non indicandoci su quali binari si stia dirigendo la storia, appare statica, incomprensibile ma destinata a raccontare un dramma familiare, successivamente, quando finalmente inizieremo ad intuirne il senso, non ci resta che rimanere affascinati dell’involuzione del protagonista, per poi restare a lui aggrappati per scoprire fino a dove si spingerà per saziare la sua fame di vittimismo e disperazione.
Un avvocato greco è disperato quando sua moglie si trova in fin di vita. Costretto improvvisamente a prendersi cura del figlio trova conforto nelle parole e nei gesti di solidarietà dei colleghi di lavoro, vicini di casa, conoscenti e amici. Quando sua moglie si riprende dal coma, improvvisamente sembra mancargli la misericordia e la pietà che tutti dimostravano nei suoi confronti, accentuata dall’invidia per dei suoi clienti che hanno perso il padre in una rapina finita male. Desideroso di essere circondato nuovamente dalla pietà, l’avvocato inizia un percorso di vittimismo perpetuo sempre più tragico, fino ad attraversare un pericoloso confine senza ritorno ……..
Babis Makridis coglie al meglio un sentimento oscuro che ogni tanto fa capolino in alcune persone: il vittimismo perpetuo. Un bisogno patologico di rimanere tristi perennemente e di essere compatiti fino all’estremo. Come una droga per il nostro avvocato questa ossessione finirà per diventare l’unica droga che lo allieta in un mondo che sembra andare nella direzione opposta, ovvero alla ricerca continua della felicità. Una contrapposizione accentuata dal fantastico ambiente marino che circonda il nostro avvocato. Quando questa assurda patologia sarà finalmente svelata, Makridis preme sull’acceleratore, con una crescita costante di cattiveria, cinismo ed egoismo macabro da parte del suo asettico protagonista, fino a giungere ad una parte finale degna dei migliori lavori di Lanthimos. Forse Makridis manca ancora qualcosa per avvicinarsi al maestro, come la perfetta simbiosi tra weird ed estremo, però è sicuramente sulla buona strada. Dialoghi deliranti, facce scolpite e musica classica rappresentano poi la cornice perfetta per un’opera dallo stile ellenico ormai consolidato, ricca però di una decisa originalità per la ricerca ossessiva dell’appagamenti interiore attraverso il dolore estremo! Se nel finale si rimane a bocca aperta per la violenza mostrata, l’ultima scena regala un sorriso amaro quanto beffardo! VALUTAZIONE 8,5/10

 

H.E.

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